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intestazione

Roma

Domenica 19 Aprile 2020. Esco dall'Hotel Torino. Di fronte un altro albergo, il Best Western. Ci sono degli stranieri con la mascherina. Parlano tra loro.

 

Giro la testa a sinistra, la strada è deserta fino a piazza XX Settembre. Giro la testa a destra, la strada è vuota. In fondo intravedo una fontana enorme che getta i suoi sbuffi in alto verso il cielo, Piazza Esedra – penso. Nessuno per la strada, nessuna auto l'attraversa, nessuno sui marciapiedi, nemmeno un uccello vola in cielo.

Vado verso Roma Termini. Incontrerò qualcuno – penso – eppure sì, qualcuno c'è. Due auto fermate dai vigili, tutti con le mascherine, si scambiano le certificazioni, alcune sono nel cellophane.

 

Guanti. Una atmosfera sospesa. Irreale. Alcune persone magrissime, vecchie, con la maschera, attraversano la piazza. Pensavo – sono solo qui a Roma, sono un testimone eccezionale eppure una angoscia mi opprime. Questa grande città, la città eterna è vuota, ferita, con i palazzi senza significato, un cielo grigio. Perché?

 

Perché una città senza uomini è un luogo di morte. E mi ricordo un film in bianco e nero, degli anni 60, su una città vuota dopo una esplosione atomica. Il protagonista è un uomo che si era salvato rifugiandosi in un sottomarino alla fonda, nel porto. All'interno della cabina riceve un segnale dal centro di San Francisco e allora si avventura alla ricerca di un altro sopravvissuto. Arriva in un ufficio postale, sperando di trovare l'autore del segnale radio. Doveva essere qualcuno con poche conoscenze in telecomunicazioni perché il segnale era in un alfabeto morse sconclusionato. L'amara scoperta però lo riempie di angoscia. Il vento aveva attorcigliato il pendino di una tapparella al ditale di un telegrafo morse e continuava a lanciare punti e linee casuali.

 

Con questa immagine dentro di me, mi avvicino alla Stazione Termini. Una stazione vuota mi accoglie senza un motivo, senza farmi comprendere perché sono lì. Ah no, ricordo, devo tornare a casa, a Pisa, c'è l'ultimo treno dal binario 24, un locale.

 

Due militari mi guardano da sotto le loro mimetiche, come avvoltoi in cerca di preda. Si accorgono del mio distintivo, sono un ferroviere, si girano dall'altra parte. Attraverso la galleria con le pubblicità seriali di Armani. Nessuno le guarda però, nemmeno l'inconscio di un turista globalizzato, neanche il barbone in cerca d'elemosina, neanche dell'unico passeggero di quel treno che deve tornare a casa e non sa perché a lui questo mondo sembri sempre più una enorme scatola vuota e inutile,

 

Il mistero di questa epidemia sta proprio in questo: ci siamo spinti forse troppo in là con la forza delle abitudini, più successo, più soldi, più viaggi in aereo, in treno, in nave, più, più, più, e adesso tutto ciò che dobbiamo fare per noi, per tutti, è stare fermi e stare fermi in casa. Per andare avanti, dobbiamo fermarci. Per non distruggere il pianeta, dobbiamo stare fermi.

 

Per uno come me, un macchinista ferroviere, che per lavoro non potevo restare a casa, il dovermi spostare mi ha prodotto una sfasatura, una differenza anche dentro di me. Le città senza uomini non hanno più senso, come le stazioni senza più viaggiatori, gli aeroporti senza aerei, tutto quello che abbiamo costruito, fatto prodotto, in un attimo, un piccolo virus ancestrale ha reso tutto vuoto, inutile, insensato. Penso a queste cose e cerco quelle veramente importanti. Non le case, i viaggi, il denaro, ma l'umanità.

 

Maurizio Rovini

 

 

 

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